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Finché non arriva, finché non ci sei dentro, è difficile immaginare come possa accadere qualcosa che sia in grado di sconvolgere così repentinamente e radicalmente quella che consideriamo la “normalità”. Ci siamo dovuti adattare, a volte con molta fatica, ad una situazione che ci ha privati di cose che mai ci saremmo sognati di mettere in discussione.


E adesso, nonostante tutte le raccomandazioni, gli avvertimenti, le prospettive di ricadute gravi, siamo qui ad aspettare quel momento in cui ci verrà restituita almeno una piccola parte di quello a cui, in queste interminabili settimane, abbiamo dovuto rinunciare. Siamo stati sommersi da spot che ricordavano quanto fosse importante “rimanere a casa” per tornare, in un imprecisato “dopo”, ad abbracciarsi, a correre spensieratamente insieme mano nella mano, a ritrovare la convivialità… Facile sperare che “sì, magari un po’ alla volta…”, “adesso che viene l’estate la situazione migliorerà”… Facile pensare che prima o poi tutto tornerà come era “prima di tutto questo”.


Ma ci è davvero utile pensarla così?


Per rispondere a questa domanda, mi permetto di portare un esempio – e spero che mi perdonerete il paragone – che può mostrare come rimodulare le proprie aspettative possa fare una grande differenza.
Durante il mio percorso formativo, mi sono trovata ad avere a che fare con familiari di persone con cerebrolesione acquisita, affranti e frustrati non solo dal dolore per il danno subito dai propri cari, ma esasperati dalle conseguenze dello stesso. Ritrovarsi improvvisamente a riassumere il ruolo di genitori accudenti per un figlio ben più che adulto o vederne compromessa la giovinezza o ritrovarsi a fare da bandante al proprio coniuge a causa delle conseguenze cognitive, fisiche, emotive che un danno cerebrale può comportare. Affrontare un lungo calvario fatto di cure, riabilitazione, difficoltà, piccoli progressi e botte di arresto; continuare a chiedersi quanto tempo ci vorrà perché le cose tornino “come prima”.


Ebbene, in moltissime situazioni del genere, questo confronto rimane impietoso, insoddisfacente, senza speranza, perché, purtroppo, non sempre è possibile tornare “come prima”. A volte non è possibile nemmeno lontanamente avvicinarcisi.


Siamo condannati a vivere quindi nella disperazione? Forse no.


Che cos’è che ci tormenta così tanto? Il senso di perdita rispetto a ciò che avevamo e che non abbiamo più; unito magari all’idea di averlo perso per sempre. Continuando a paragonare l’adesso a quel prima che ormai non è più, continuiamo ad alimentare quella sensazione di perdita e la disperazione che ne consegue. È comprensibile. È umano. Ma sicuramente non ci fa stare bene.


Forse abbiamo bisogno di cambiare un po’ la nostra prospettiva, considerare un altro “punto zero”: l’evento che ha sconvolto le nostre vite, quello è il punto di partenza. I familiari di cui parlavo prima, nel momento in cui riuscivano a spostare il loro termine di paragone dal “prima del trauma” al “dopo il trauma” riuscivano ad apprezzare molto di più i progressi, grandi o piccoli che fossero, dei loro congiunti durante la riabilitazione. Intendiamoci, non sto cercando di sminuire la fatica che tutto ciò comporta, né di dire che in questo modo le cose diventano miracolosamente meravigliose o che tutti i problemi scompaiono. Sto dicendo che si può riuscire – e, lo ripeto, non sto dicendo che sia assolutamente facile, ma che è possibile – a non farci più male del necessario.

Nessuno di noi sa se o quando “tutto tornerà come prima” nella situazione che stiamo vivendo. Ma anche noi possiamo provare a spostare il nostro termine di paragone e vedere ogni piccolo progresso che faremo, ogni piccola riconquista che sarà possibile come un guadagno rispetto a questi grandissimi sacrifici che stiamo facendo e non come cose insignificanti rispetto a ciò che non abbiamo più.

Ogni “adesso” è l’unico momento in cui siamo vivi. Viviamo adesso.

Dott.ssa Katia Clauter, Psicologa Psicoteraputa

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